23 gennaio 2009 - Giornale del Popolo

OMICIDIO TAMAGNI Le richieste della pp Item: 10 anni e mezzo per Tomic, 10 per Grgic e 3 per Jurkic
«Dai tre imputati nessun rispetto per la vita umana»
di LUCA PELLONI
Conferma integrale dell’atto d’accusa. È quan­to chiesto ieri, durante la quarta giornata del pro­cesso per l’omicidio di Damiano Tamagni, dalla procuratrice pubblica Rosa Item. Così per Marko Tomic e Ivica Grgic, accusati di omicidio intenzio­nale, ha proposto, rispettivamente, una pena de­tentiva di 10 anni e mezzo e 10 anni di detenzio­ne, tenuto conto del carcere preventivo scontato. Per Ivan Jurkic, accusato invece di aggressione, ha chiesto una pena di 3 anni di reclusione, sempre tenendo conto del tempo già passato in prigione. I tre, lo ricordiamo, sono stati arrestati nelle ore se­guenti la tragica notte del 1° febbraio del 2008. «To­mic – ha sottolineato la procuratrice, motivando la sua richiesta – ha mostrato di non essere con­sapevole dei gesti commessi, delle sue colpe, trin­cerandosi dietro molteplici “non ricordo”». Grgic, invece, col tempo si è dimostrato più collaborati­vo: «Alla fine, bene o male, ha ammesso alcune ter­ribili azioni», ha aggiunto Rosa Item. Infine, la pro­curatrice ritiene gravissima anche la colpa di Jurkic: «Non è stato trasparente durante tutta l’inchiesta. E porta la responsabilità dell’attacco sferrato nei confronti di Damiano». Il magistrato ha catalizzato l’attenzione durante tut­to il pomeriggio. Ma la giornata di ieri si è aperta con una ricostruzione dei primi soccorsi apporta­ti a Damiano Tamagni, dopo la feroce aggressio­ne. Il giudice Mauro Ermani ha così letto alcuni passaggi, tratti da testimonianze dei soccorritori. I primi a sopraggiungere sul posto hanno dichia­rato che Damiano aveva gli occhi sbarrati, già opa­chi. Le labbra erano cianotiche. Una ricostruzio­ne che ha scatenato emozione dilanianti. Atroce il dolore provato dai genitori di Damiano. Palpabile anche l’angoscia che si è vissuta in sala. La mam­ma aveva lo sguardo fisso verso i tre imputati. Ma non traspariva odio o rancore. Il suo era uno sguar­do di dolore profondo, immenso, perché, qualsia­si sia la sentenza, come sottolineato anche dalla procuratrice, Damiano non sarà mai restituito ai suoi cari. Questa mattina prenderà la parola l’av­vocato di parte civile, Diego Olgiati, nel pomerig­gio si attende invece l’arringa dell’avvocato Luca Marcellini, patrocinatore di Ivan Jurkic, accusato di aggressione.
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Giustizia per una morte assurda
Lunga più di quattro ore e precisa in ogni minimo dettaglio la requisi­toria della procuratrice pubblica Ro­sa Item. «La corte è chiamata a met­tere la parola fine su questo triste ca­so, che ha suscitato profonda com­mozione in tutta la popolazione», ha esordito. «Non potremo sanare tutti i mali del mondo. Ma fare giustizia, accertando le colpe di una morte as­surda ». La procuratrice ha così evi­denziato come i tre imputati abbia­no fornito una ricostruzione dei fat­ti discordante, nonostante il tentati­vo di mettersi d’accordo per elabo­rare (anche furtivamente nei corridoi del carcere) una versione unanime. «All’inizio, fantasticando su un pugno sferrato da Damiano, hanno persino tentato di invocare la legittima dife­sa », ha sottolineato. «Mentre dalla ri­costruzione effettuata con l’ausilio di moltissimi testimoni, si evince un quadro ben diverso. Grgic non sfer­ra nessun pugno al volto di Damia­no, che cade dunque a terra per i cal­ci di Tomic, senza però battere la te­sta ».
I colpi inferti
Rosa Item ha ripercorso, doverosa­mente seppur suscitando ulteriore commozione, i colpi inferti, secondo il suo giudizio, dai singoli imputati. «Marko Tomic ha colpito Damiano con un pugno al viso, ma solo di stri­scio. Due pedate le ha poi inferte al­la coscia e allo stinco. E, mentre il 22enne di Gordola, si trovava a terra lo ha copito con un calcio alla tem­pia sinistra». «Ivica Grgic – ha conti­nuato – non ha colpito Damiano al volto, quando quest’ultimo era anco­ra in piedi. Testimoni dicono però che gli abbia sferrato pedate al cor­po, quando era già a terra, prima di infliggergli un calcio alla testa». Di­scorso leggermente diverso per Ivan Jurkic, accusato di aggressione. «Ha ammesso di aver spinto a più ripre­se Damiano, mentre la situazione era però pacifica. Dopodiché, subitanei entrano in gioco i suoi compari che iniziano a picchiare Damiano», ha detto. «Dalle testimonianze emerge che anche Jurkic ha inferto dei cal­ci a Damiano, quando si trovava a terra». Ma si è fermato prima degli altri.
Fatali i calci al capo
La perizia del dottor Osculati, l’uni­co ad aver esaminato Damiano, an­che quando era ancora vivo, parla di 15 lesioni, tra cui la lacerazione del-l­’arteria vertebrale (causa ultima del­la morte del giovane gordolese), tut­te compatibili con i colpi inferti du­rante l’aggressione. «Una lacerazio­ne provocata da un colpo forte alla testa», ha evidenziato Rosa Item. «Secondo Osculati, l’unica ipotesi probabile per delineare le cause del­la lacerazione è un movimento ano­malo del collo, riconducibile solo al­le lesioni alla testa e al capo. Quindi possono essere stati solo i due calci, sferrati da Tomic e Grgic, ad uccide­re Damiano. A essere letale può es­sere stato un colpo, oppure l’altro. O entrambi».
Per quale assurdo motivo?
«Per quale motivo ci si avventa sulla vittima?», si è chiesta la procuratrice. «Forse ci si voleva mostrare “belli” da­vanti agli occhi del famigerato ragaz­zo rissoso. Non so... Ma sicuramen­te per menare le mani. Per picchia­re. A causa di una intrinseca violen­za fine a sé stessa, che fa parte della personalità dei tre imputati». «Chi picchiamo stasera? Se qualcuno mi rompe le scatole, lo ammazzo». Fra­si dette rispettivamente da Tomic e Grgic, prima di recarsi al carnevale di Locarno, che la procuratrice ha rie­vocato per sottolineare ancora una volta l’indole violenta degli imputati.
La richiesta di pena
In diritto l’omicidio intenzionale può essere punito con una pena compre­sa tra i 5 e i 20 anni di detenzione. Mentre per l’aggressione si possono infliggere fino a 5 anni di prigione. Questi gli spazi di manovra nei qua­li ha potuto muoversi la procuratrice Rosa Item. «I tre imputati non hanno dimostrato nessun rispetto per la vi­ta umana», ha detto con convinzio­ne, escludendo la possibilità di una possibile scemata responsabilità. «Non erano nemmeno brilli».Rosa Item ha poi spiegato la differenza tra un dolo diretto o eventuale. L’accusa di omicidio diretta a Grgic e Tomic si basa sulla seconda eventualità. «Le azioni di Ivica e Marko sono al limi­te del dolo diretto». I calci inferti a Da­miano da Grgic e Tomic sono stati violentissimi. «Non importa stabilire quale colpo sia stato a causare real­mente il decesso. Importa invece che entrambi erano consapevoli, co­me hanno infine ammesso durante il dibattimento, che le botte date a Da­miano erano tali da poter cagionare la sua morte. Hanno agito in correità. Il decesso deriva dalle loro azioni. Questo è sufficiente per accusarli di omicidio», ha infine aggiunto citan­do una sentenza del Tribunale fede­rale. Il movente? «Violenza fine a sé stessa», ha ripetuto. Così ha chiesto 10 anni e mezzo di detenzione per Marko Tomic, 10 anni per Ivica Grgic e tre anni per Ivan Jurkic.
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Le pene subordinate
Come in tutti i processi “complicati”, oltre al­le imputazioni contenute nell’atto di accusa, il presidente della Corte ha aggiunto delle qua­lifiche giuridiche – le cosiddette “subordina­te” – che in genere prevedono un’attenuazio­ne dei reati. È una cautela che permette ai giu­dici uno spettro più ampio di esame delle re­sponsabilità degli imputati. In questo caso, al­l’accusa di omicidio intenzionale per i due im­putati maggiori (Marko Tomic e Ivica Grgic), in camera di consiglio la Corte valuterà la de­rubricazione in lesioni personali gravi, aggres­sione, omicidio colposo e omissione di soccor­so. Per il terzo imputato (Ivan Jurkic): rissa in concorso con omicidio colposo. Inoltre per Tomic c’è anche il reato di pornografia per il possesso di un video di sesso estremo. Oltre a determinare la detenzione i giudici dovran­no pronunciarsi anche sul risarcimento chie­sto dalla parte civile, ossia dai familiari di Da­miano, le cui pretese saranno presentate og­gi dal loro patrocinatore, avv. Diego Olgiati, che ieri ha evidenziato la terapia psicologica cui dovrebbero sottoporsi, «anche se – ha preci­sato – da un trauma così grave non potranno mai ristabilirsi in modo completo».
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I soccorsi, pronti ma vani
«Abbiamo notato un assembramento di gen­te, poco lontano dal capannone di Piazza Sant’Antonio. Ci siamo avvicinati e, fendendo la calca, abbiamo visto un giovane a terra, esani­me ». Questa la testimonianza di due agenti del­la sicurezza, in servizio nella notte della Strano­ciada. Il ragazzo non dava segni di vita. Immediata la telefonata per i soccorsi. Intanto un agente e un giovane studente infermiere, presente occasio­nalmente, iniziano a praticargli la respirazione artificiale. Arriva l’ambulanza del Salva e il me­dico di turno. Le sue pupille sono già velate, le labbra cianotiche. Damiano viene sottoposto a immediati ed energici interventi di rianimazio­ne. I battiti riprendono, ma la respirazione rima­ne completamente assente. Evidentemente le le­sioni cerebrali sono gravissime. L’ambulanza lo evacua di corsa verso il vicino ospedale. Dalla Tac arriva il responso: morte ce­rebrale. È l’una di notte e il corpo di Damiano viene trasportato a Lugano per l’espianto degli organi. Questi i freddi, ma drammatici fotogrammi del­la tragedia, ripercorsi dal giudice Mauro Erma­ni ieri mattina, con la lettura delle testimonian­ze, comprese quelle dei tre imputati, che però non concordano nemmeno nel ricordare il lo­ro ritorno sul luogo del pestaggio, quanto me­no per la “curiosità” di verificare in quali condi­zioni si trovasse la vittima. Due di loro vanno a chiudere la tragica notte al carnevale di Bellinzona. Avevamo un appunta­mento, dicono. «Se foste stati preoccupati, sa­reste dovuti andare all’ospedale», ribatte il pre­sidente della Corte. La mattinata di ieri ha permesso anche di rivi­sitare una serie di testimonianze di persone pre­senti quella sera prima, durante e dopo il fattac­cio. I difensori si sono soffermati sui racconti me­no credibili, sicuramente in buona fede, ma frut­to della rabbia e dell’emozione collettiva di quei giorni. In effetti qualche teste, alla verifica dei fat­ti, appare contradditorio e fantasioso. «Ma questi non inficiano la credibilità di tutti gli altri», ha rilevato il presidente. E la procuratri­ce Rosa Item, unitamente all’avv. Diego Olgiati di parte civile, l’ha sottolineato con le citazioni di altri testi, dimostrando la cautela e la veridi­cità delle loro affermazioni. Proprio sui testimoni ci sarà battaglia fra accu­sa e difesa. (T.V.)
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La legge del branco
di GRAZIANO MARTIGNONI
Il branco fa pensare al mondo anima-l­e, ove vige la difesa del territorio, i codici di dominanza, in un parola la cultura del­la sopravvivenza. La sopravvivenza di se stessi e della propria specie. La domanda rimane come sia possibile nelle nostre co­munità il sorgere di “nicchie identitarie” esposti ad una vulnerabilità narcisistica collettiva (oltre che individuale) così ele­vata da divenire se semplicemente sfiora­ta terribilmente violenta. Se appartenere ad un gruppo, anche malvagio, è sempre da qualche parte una sorta di decisione, implicante a volte una perdita del buon senso o della ragionevolezza stessa, stare, seguire, agire nel “branco” è certamente un’esperienza di più profonda “regressio­ne etologica”. Un’esperienza puramente dominata dagli impulsi e dalla loro gestua­lità che azzera il pensiero, facilmente esposta alla cancellazione dell’esame di realtà, alla perdita del senso e del valore della vita altrui. Un’esperienza di parteci­pazione imitativa e adesiva all’evento, che si sta vivendo in quel momento stesso o al comportamento di colui che guida il branco. Ciò che è avvenuto quella notte sembra avere così più il carattere im-pul­sionale del branco che la forma preordi­nata del gruppo. Un dominio della “selvag­gità” che può trovare i suoi “fragili” e vio­lenti attori e le sue casuali vittime. Una “sel­vaggità” che la Ragione non controlla, an­zi che si risolve sovente nei soggetti coin­volti in una frenesia eccitata che tutto può banalizzare, svuotare di senso, negare. Non dobbiamo scordare che l’identità è “ap­poggiata” su alcuni fondamentali pilastri mutevoli e sempre pronti a vacillare, che sono il corpo, la percezione del nostro Sé, quella di spazio e di tempo e infine ma non meno importante quella di gruppo. Il ruo­lo della cultura e dei suoi valori fa da col­lante a queste diverse parti. Una società culturalmente disanimata è certamente più a rischio. Tutti “pilastri” che nelle fasi di passaggio della vita, tra cui certamen­te l’adolescenza, sono sottoposti a grandi turbamenti e mutazioni. Quando la cultu­ra di una comunità (o di una famiglia o di un gruppo sociale) perde forza e costanza o é costretta a mu­tare troppo velocemente forma e valori, possono apparire forme di resistenza e di difesa regressivi an­che molto pericolosi, in cui la vio­lenza ha spesso un ruolo predomi­nante. Il problema è quello di sape­re e potere scegliere tra buoni e cat­tivi gruppi di appartenenza, tra comportamenti imitativi (dunque rassicuranti) tutto sommato beni­gni e passeggeri e comportamenti rischiosi per la loro capacità di iso­lamento dal resto del mondo (an­che dei coetanei), di dipendenza malata, di distruttività. Dietro que­ste osservazioni un po’ “classiche” tanto da sembrare scontate, vi è però un altro interrogativo, che prende le mosse da alcune facili constatazioni. È come se nell’uomo abitassero, per paura, per difesa, per sopravvivenza a volte, due voci, due cittadinanze, l’una che tende alla sua individualità e l’altra domina­ta dall’attrazione banale del gregge. Quando il gregge domina la scena e quando la domina nelle sue for­me più regressive allora il pericolo di vacillare nel Male e nella violen­za bruta e banale è grande. Diveni­re individui è faticoso e ha bisogno degli altri. Altri che spesso non ci so­no. Una condizione che può dive­nire terribile.
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I giovani rispondano
di STEFANO LAPPE (Studente IV Liceo al Papio)
«Che cosa si aspetta dal processo?» Que­sta la domanda posta dal Presidente della Corte a ciascuno dei tre imputati durante i dibattimenti di ieri. A questa domanda i tre giovani hanno risposto che dal processo si aspettano giustizia. Giustizia per Damiano e giustizia per i suoi cari. Non so se questa frase sia stata preparata con gli avvocati o istintiva, ma mi ha molto colpito, non tan­to per chi l’ha proferita, quanto per la rea­zione dei genitori degli imputati. Partecipa­re ad un processo che vede il proprio figlio accusato di crimini gravissimi non è asso­lutamente cosa facile; sentirlo rispondere «mi aspetto di essere punito e di pagare per un errore che ho commesso, e cioè aver par­tecipato ad una rissa che ha portato alla morte di un ragazzo» deve essere terrifican­te! Alla tristezza e alla commozione che ho pro­vato nell’osservare la disperazione e lo sconforto dei famigliari di Damiano mi si è aggiunta un’altra tristezza, legata all’atteg­giamento dei parenti dei tre imputati: testa china, gomiti sulle ginocchia, scorrimento delle mani sul viso, come per cancellare qualcosa, cancellare quella notte, quella par­te del proprio figlio che sicuramente non avrebbero mai voluto conoscere… In televisione e nei videogiochi non ci si trat­tiene mai dal rappresentare morti e omici­di, questo bombardamento di informazioni scombussola in un giovane tutti i valori che gli sono stati impartiti dalla famiglia e dalla scuola; tutto perde peso e colore, ogni uomo diventa una pe­dina, forse con due o tre vite. Il tra­gico evento del carnevale di Locar­no può benissimo non essere altro che la punta di un iceberg, una ge­lida montagna di ghiaccio conte­nente ragazze e ragazzi per i qua­li la vita è uguale alla morte, che non sanno più orientarsi in un mondo creato dagli adulti, che su­bito però se ne distanziano, ricon­ducendolo agli stessi giovani. Non credo sia sufficiente procede­re con un rapporto causa-effetto, misfatto-punizione, è necessaria prima di ogni altra cosa una pre­sa di coscienza su come coinvol­gere tutti i giovani. Personalmen­te penso la si possa definire una “pre-prevenzione”, perché comin­cia col valorizzare i giovanissimi che in svariati modi si adoperano in attività positive e costruttive per la società (sia a livello sportivo, cul­turale, politico, di volontariato e di svago), per diventare adolescenti che credono in quello che fanno, che lo sentono una loro creazione e nei cui confronti sviluppano sentimenti di appartenenza insie­me a coloro che li hanno sostenuti.

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