OMICIDIO TAMAGNI Le richieste della pp Item: 10 anni e mezzo per Tomic, 10 per Grgic e 3 per Jurkic
«Dai tre imputati nessun rispetto per la vita umana»
di LUCA PELLONI
Conferma integrale dell’atto d’accusa. È quanto chiesto ieri, durante la quarta giornata del processo per l’omicidio di Damiano Tamagni, dalla procuratrice pubblica Rosa Item. Così per Marko Tomic e Ivica Grgic, accusati di omicidio intenzionale, ha proposto, rispettivamente, una pena detentiva di 10 anni e mezzo e 10 anni di detenzione, tenuto conto del carcere preventivo scontato. Per Ivan Jurkic, accusato invece di aggressione, ha chiesto una pena di 3 anni di reclusione, sempre tenendo conto del tempo già passato in prigione. I tre, lo ricordiamo, sono stati arrestati nelle ore seguenti la tragica notte del 1° febbraio del 2008. «Tomic – ha sottolineato la procuratrice, motivando la sua richiesta – ha mostrato di non essere consapevole dei gesti commessi, delle sue colpe, trincerandosi dietro molteplici “non ricordo”». Grgic, invece, col tempo si è dimostrato più collaborativo: «Alla fine, bene o male, ha ammesso alcune terribili azioni», ha aggiunto Rosa Item. Infine, la procuratrice ritiene gravissima anche la colpa di Jurkic: «Non è stato trasparente durante tutta l’inchiesta. E porta la responsabilità dell’attacco sferrato nei confronti di Damiano». Il magistrato ha catalizzato l’attenzione durante tutto il pomeriggio. Ma la giornata di ieri si è aperta con una ricostruzione dei primi soccorsi apportati a Damiano Tamagni, dopo la feroce aggressione. Il giudice Mauro Ermani ha così letto alcuni passaggi, tratti da testimonianze dei soccorritori. I primi a sopraggiungere sul posto hanno dichiarato che Damiano aveva gli occhi sbarrati, già opachi. Le labbra erano cianotiche. Una ricostruzione che ha scatenato emozione dilanianti. Atroce il dolore provato dai genitori di Damiano. Palpabile anche l’angoscia che si è vissuta in sala. La mamma aveva lo sguardo fisso verso i tre imputati. Ma non traspariva odio o rancore. Il suo era uno sguardo di dolore profondo, immenso, perché, qualsiasi sia la sentenza, come sottolineato anche dalla procuratrice, Damiano non sarà mai restituito ai suoi cari. Questa mattina prenderà la parola l’avvocato di parte civile, Diego Olgiati, nel pomeriggio si attende invece l’arringa dell’avvocato Luca Marcellini, patrocinatore di Ivan Jurkic, accusato di aggressione.
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Giustizia per una morte assurda
Lunga più di quattro ore e precisa in ogni minimo dettaglio la requisitoria della procuratrice pubblica Rosa Item. «La corte è chiamata a mettere la parola fine su questo triste caso, che ha suscitato profonda commozione in tutta la popolazione», ha esordito. «Non potremo sanare tutti i mali del mondo. Ma fare giustizia, accertando le colpe di una morte assurda ». La procuratrice ha così evidenziato come i tre imputati abbiano fornito una ricostruzione dei fatti discordante, nonostante il tentativo di mettersi d’accordo per elaborare (anche furtivamente nei corridoi del carcere) una versione unanime. «All’inizio, fantasticando su un pugno sferrato da Damiano, hanno persino tentato di invocare la legittima difesa », ha sottolineato. «Mentre dalla ricostruzione effettuata con l’ausilio di moltissimi testimoni, si evince un quadro ben diverso. Grgic non sferra nessun pugno al volto di Damiano, che cade dunque a terra per i calci di Tomic, senza però battere la testa ».
I colpi inferti
Rosa Item ha ripercorso, doverosamente seppur suscitando ulteriore commozione, i colpi inferti, secondo il suo giudizio, dai singoli imputati. «Marko Tomic ha colpito Damiano con un pugno al viso, ma solo di striscio. Due pedate le ha poi inferte alla coscia e allo stinco. E, mentre il 22enne di Gordola, si trovava a terra lo ha copito con un calcio alla tempia sinistra». «Ivica Grgic – ha continuato – non ha colpito Damiano al volto, quando quest’ultimo era ancora in piedi. Testimoni dicono però che gli abbia sferrato pedate al corpo, quando era già a terra, prima di infliggergli un calcio alla testa». Discorso leggermente diverso per Ivan Jurkic, accusato di aggressione. «Ha ammesso di aver spinto a più riprese Damiano, mentre la situazione era però pacifica. Dopodiché, subitanei entrano in gioco i suoi compari che iniziano a picchiare Damiano», ha detto. «Dalle testimonianze emerge che anche Jurkic ha inferto dei calci a Damiano, quando si trovava a terra». Ma si è fermato prima degli altri.
Fatali i calci al capo
La perizia del dottor Osculati, l’unico ad aver esaminato Damiano, anche quando era ancora vivo, parla di 15 lesioni, tra cui la lacerazione del-l’arteria vertebrale (causa ultima della morte del giovane gordolese), tutte compatibili con i colpi inferti durante l’aggressione. «Una lacerazione provocata da un colpo forte alla testa», ha evidenziato Rosa Item. «Secondo Osculati, l’unica ipotesi probabile per delineare le cause della lacerazione è un movimento anomalo del collo, riconducibile solo alle lesioni alla testa e al capo. Quindi possono essere stati solo i due calci, sferrati da Tomic e Grgic, ad uccidere Damiano. A essere letale può essere stato un colpo, oppure l’altro. O entrambi».
Per quale assurdo motivo?
«Per quale motivo ci si avventa sulla vittima?», si è chiesta la procuratrice. «Forse ci si voleva mostrare “belli” davanti agli occhi del famigerato ragazzo rissoso. Non so... Ma sicuramente per menare le mani. Per picchiare. A causa di una intrinseca violenza fine a sé stessa, che fa parte della personalità dei tre imputati». «Chi picchiamo stasera? Se qualcuno mi rompe le scatole, lo ammazzo». Frasi dette rispettivamente da Tomic e Grgic, prima di recarsi al carnevale di Locarno, che la procuratrice ha rievocato per sottolineare ancora una volta l’indole violenta degli imputati.
La richiesta di pena
In diritto l’omicidio intenzionale può essere punito con una pena compresa tra i 5 e i 20 anni di detenzione. Mentre per l’aggressione si possono infliggere fino a 5 anni di prigione. Questi gli spazi di manovra nei quali ha potuto muoversi la procuratrice Rosa Item. «I tre imputati non hanno dimostrato nessun rispetto per la vita umana», ha detto con convinzione, escludendo la possibilità di una possibile scemata responsabilità. «Non erano nemmeno brilli».Rosa Item ha poi spiegato la differenza tra un dolo diretto o eventuale. L’accusa di omicidio diretta a Grgic e Tomic si basa sulla seconda eventualità. «Le azioni di Ivica e Marko sono al limite del dolo diretto». I calci inferti a Damiano da Grgic e Tomic sono stati violentissimi. «Non importa stabilire quale colpo sia stato a causare realmente il decesso. Importa invece che entrambi erano consapevoli, come hanno infine ammesso durante il dibattimento, che le botte date a Damiano erano tali da poter cagionare la sua morte. Hanno agito in correità. Il decesso deriva dalle loro azioni. Questo è sufficiente per accusarli di omicidio», ha infine aggiunto citando una sentenza del Tribunale federale. Il movente? «Violenza fine a sé stessa», ha ripetuto. Così ha chiesto 10 anni e mezzo di detenzione per Marko Tomic, 10 anni per Ivica Grgic e tre anni per Ivan Jurkic.
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Le pene subordinate
Come in tutti i processi “complicati”, oltre alle imputazioni contenute nell’atto di accusa, il presidente della Corte ha aggiunto delle qualifiche giuridiche – le cosiddette “subordinate” – che in genere prevedono un’attenuazione dei reati. È una cautela che permette ai giudici uno spettro più ampio di esame delle responsabilità degli imputati. In questo caso, all’accusa di omicidio intenzionale per i due imputati maggiori (Marko Tomic e Ivica Grgic), in camera di consiglio la Corte valuterà la derubricazione in lesioni personali gravi, aggressione, omicidio colposo e omissione di soccorso. Per il terzo imputato (Ivan Jurkic): rissa in concorso con omicidio colposo. Inoltre per Tomic c’è anche il reato di pornografia per il possesso di un video di sesso estremo. Oltre a determinare la detenzione i giudici dovranno pronunciarsi anche sul risarcimento chiesto dalla parte civile, ossia dai familiari di Damiano, le cui pretese saranno presentate oggi dal loro patrocinatore, avv. Diego Olgiati, che ieri ha evidenziato la terapia psicologica cui dovrebbero sottoporsi, «anche se – ha precisato – da un trauma così grave non potranno mai ristabilirsi in modo completo».
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I soccorsi, pronti ma vani
«Abbiamo notato un assembramento di gente, poco lontano dal capannone di Piazza Sant’Antonio. Ci siamo avvicinati e, fendendo la calca, abbiamo visto un giovane a terra, esanime ». Questa la testimonianza di due agenti della sicurezza, in servizio nella notte della Stranociada. Il ragazzo non dava segni di vita. Immediata la telefonata per i soccorsi. Intanto un agente e un giovane studente infermiere, presente occasionalmente, iniziano a praticargli la respirazione artificiale. Arriva l’ambulanza del Salva e il medico di turno. Le sue pupille sono già velate, le labbra cianotiche. Damiano viene sottoposto a immediati ed energici interventi di rianimazione. I battiti riprendono, ma la respirazione rimane completamente assente. Evidentemente le lesioni cerebrali sono gravissime. L’ambulanza lo evacua di corsa verso il vicino ospedale. Dalla Tac arriva il responso: morte cerebrale. È l’una di notte e il corpo di Damiano viene trasportato a Lugano per l’espianto degli organi. Questi i freddi, ma drammatici fotogrammi della tragedia, ripercorsi dal giudice Mauro Ermani ieri mattina, con la lettura delle testimonianze, comprese quelle dei tre imputati, che però non concordano nemmeno nel ricordare il loro ritorno sul luogo del pestaggio, quanto meno per la “curiosità” di verificare in quali condizioni si trovasse la vittima. Due di loro vanno a chiudere la tragica notte al carnevale di Bellinzona. Avevamo un appuntamento, dicono. «Se foste stati preoccupati, sareste dovuti andare all’ospedale», ribatte il presidente della Corte. La mattinata di ieri ha permesso anche di rivisitare una serie di testimonianze di persone presenti quella sera prima, durante e dopo il fattaccio. I difensori si sono soffermati sui racconti meno credibili, sicuramente in buona fede, ma frutto della rabbia e dell’emozione collettiva di quei giorni. In effetti qualche teste, alla verifica dei fatti, appare contradditorio e fantasioso. «Ma questi non inficiano la credibilità di tutti gli altri», ha rilevato il presidente. E la procuratrice Rosa Item, unitamente all’avv. Diego Olgiati di parte civile, l’ha sottolineato con le citazioni di altri testi, dimostrando la cautela e la veridicità delle loro affermazioni. Proprio sui testimoni ci sarà battaglia fra accusa e difesa. (T.V.)
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La legge del branco
di GRAZIANO MARTIGNONI
Il branco fa pensare al mondo anima-le, ove vige la difesa del territorio, i codici di dominanza, in un parola la cultura della sopravvivenza. La sopravvivenza di se stessi e della propria specie. La domanda rimane come sia possibile nelle nostre comunità il sorgere di “nicchie identitarie” esposti ad una vulnerabilità narcisistica collettiva (oltre che individuale) così elevata da divenire se semplicemente sfiorata terribilmente violenta. Se appartenere ad un gruppo, anche malvagio, è sempre da qualche parte una sorta di decisione, implicante a volte una perdita del buon senso o della ragionevolezza stessa, stare, seguire, agire nel “branco” è certamente un’esperienza di più profonda “regressione etologica”. Un’esperienza puramente dominata dagli impulsi e dalla loro gestualità che azzera il pensiero, facilmente esposta alla cancellazione dell’esame di realtà, alla perdita del senso e del valore della vita altrui. Un’esperienza di partecipazione imitativa e adesiva all’evento, che si sta vivendo in quel momento stesso o al comportamento di colui che guida il branco. Ciò che è avvenuto quella notte sembra avere così più il carattere im-pulsionale del branco che la forma preordinata del gruppo. Un dominio della “selvaggità” che può trovare i suoi “fragili” e violenti attori e le sue casuali vittime. Una “selvaggità” che la Ragione non controlla, anzi che si risolve sovente nei soggetti coinvolti in una frenesia eccitata che tutto può banalizzare, svuotare di senso, negare. Non dobbiamo scordare che l’identità è “appoggiata” su alcuni fondamentali pilastri mutevoli e sempre pronti a vacillare, che sono il corpo, la percezione del nostro Sé, quella di spazio e di tempo e infine ma non meno importante quella di gruppo. Il ruolo della cultura e dei suoi valori fa da collante a queste diverse parti. Una società culturalmente disanimata è certamente più a rischio. Tutti “pilastri” che nelle fasi di passaggio della vita, tra cui certamente l’adolescenza, sono sottoposti a grandi turbamenti e mutazioni. Quando la cultura di una comunità (o di una famiglia o di un gruppo sociale) perde forza e costanza o é costretta a mutare troppo velocemente forma e valori, possono apparire forme di resistenza e di difesa regressivi anche molto pericolosi, in cui la violenza ha spesso un ruolo predominante. Il problema è quello di sapere e potere scegliere tra buoni e cattivi gruppi di appartenenza, tra comportamenti imitativi (dunque rassicuranti) tutto sommato benigni e passeggeri e comportamenti rischiosi per la loro capacità di isolamento dal resto del mondo (anche dei coetanei), di dipendenza malata, di distruttività. Dietro queste osservazioni un po’ “classiche” tanto da sembrare scontate, vi è però un altro interrogativo, che prende le mosse da alcune facili constatazioni. È come se nell’uomo abitassero, per paura, per difesa, per sopravvivenza a volte, due voci, due cittadinanze, l’una che tende alla sua individualità e l’altra dominata dall’attrazione banale del gregge. Quando il gregge domina la scena e quando la domina nelle sue forme più regressive allora il pericolo di vacillare nel Male e nella violenza bruta e banale è grande. Divenire individui è faticoso e ha bisogno degli altri. Altri che spesso non ci sono. Una condizione che può divenire terribile.
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I giovani rispondano
di STEFANO LAPPE (Studente IV Liceo al Papio)
«Che cosa si aspetta dal processo?» Questa la domanda posta dal Presidente della Corte a ciascuno dei tre imputati durante i dibattimenti di ieri. A questa domanda i tre giovani hanno risposto che dal processo si aspettano giustizia. Giustizia per Damiano e giustizia per i suoi cari. Non so se questa frase sia stata preparata con gli avvocati o istintiva, ma mi ha molto colpito, non tanto per chi l’ha proferita, quanto per la reazione dei genitori degli imputati. Partecipare ad un processo che vede il proprio figlio accusato di crimini gravissimi non è assolutamente cosa facile; sentirlo rispondere «mi aspetto di essere punito e di pagare per un errore che ho commesso, e cioè aver partecipato ad una rissa che ha portato alla morte di un ragazzo» deve essere terrificante! Alla tristezza e alla commozione che ho provato nell’osservare la disperazione e lo sconforto dei famigliari di Damiano mi si è aggiunta un’altra tristezza, legata all’atteggiamento dei parenti dei tre imputati: testa china, gomiti sulle ginocchia, scorrimento delle mani sul viso, come per cancellare qualcosa, cancellare quella notte, quella parte del proprio figlio che sicuramente non avrebbero mai voluto conoscere… In televisione e nei videogiochi non ci si trattiene mai dal rappresentare morti e omicidi, questo bombardamento di informazioni scombussola in un giovane tutti i valori che gli sono stati impartiti dalla famiglia e dalla scuola; tutto perde peso e colore, ogni uomo diventa una pedina, forse con due o tre vite. Il tragico evento del carnevale di Locarno può benissimo non essere altro che la punta di un iceberg, una gelida montagna di ghiaccio contenente ragazze e ragazzi per i quali la vita è uguale alla morte, che non sanno più orientarsi in un mondo creato dagli adulti, che subito però se ne distanziano, riconducendolo agli stessi giovani. Non credo sia sufficiente procedere con un rapporto causa-effetto, misfatto-punizione, è necessaria prima di ogni altra cosa una presa di coscienza su come coinvolgere tutti i giovani. Personalmente penso la si possa definire una “pre-prevenzione”, perché comincia col valorizzare i giovanissimi che in svariati modi si adoperano in attività positive e costruttive per la società (sia a livello sportivo, culturale, politico, di volontariato e di svago), per diventare adolescenti che credono in quello che fanno, che lo sentono una loro creazione e nei cui confronti sviluppano sentimenti di appartenenza insieme a coloro che li hanno sostenuti.
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