24 gennaio 2009 - Giornale del Popolo

PROCESSO TAMAGNI
A confronto l’avvocato dei genitori di Damiano e quello del 20enne Jurkic
C’è un abisso sui dettagli È stato assassinio o rissa?
di LUCA PELLONI e PATRICK MANCINI
La sabbia nella clessidra sta per finire. Mancano solo due giorni. Poi sul processo Tamagni, calerà il sipario. Ieri nell’aula delle assise criminali di Locar­no si sono confrontati Diego Olgiati, legale della fa­miglia Tamagni, e Luca Marcellini, avvocato di Ivan Jurkic, il 20enne che lo scorso primo febbraio al car­nevale in Città Vecchia con alcune spinte diede il “la” al pestaggio letale di Damiano, il 22enne di Gor­dola morto il giorno dopo in ospedale. Con lui, al­la sbarra, gli altri due “complici”: Marko Tomic (19) e Ivica Grgic (23), accusati di omicidio intenziona­le. Da una parte Olgiati non usa mezze misure per definire come gli atti del trio si situino al limite del­l’assassinio. Dall’altra Marcellini invita la Corte a non farsi trascinare dal rancore popolare che que­sto genere di episodi fa scaturire. Olgiati oltre alle pene chiede 263mila franchi per risarcire – anche se Damiano non sarà mai restituito ai suoi cari – la famiglia Tamagni di tutti i disagi subiti. Marcellini, invece, sostiene che l’accusa di aggressione nei con­fronti di Jurkic debba essere convertita in accusa di rissa. Mentre gli scontri in aula proseguono (c’è sta­to pure un battibecco tra una parente di Tomic e un parente di Damiano), il processo si sposta sem­pre di più anche all’esterno. La pena proposta dal­la procuratrice pubblica Rosa Item, 10 anni e mez­zo e 10 anni rispettivamente per Tomic e Grgic e 3 anni per Jurkic, non fa l’unanimità. Anzi. Su face­book, il popolare sito internet di incontri, è nato un gruppo che chiede l’ergastolo. Un’iniziativa da re­cord, che in poche ore ha raccolto centinaia di ade­sioni. Su un altro sito “www.firmiamo.it” è stata lan­ciata una raccolta di firme che chiede alle autorità di rivedere la pena proposta. Al di là di quella che sarà la sentenza definitiva, prevista per martedì, la gente sta vivendo il processo con un coinvolgimen­to senza precedenti.

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La domanda
I testimoni dove erano?
È una domanda che in molti si sono posti do­po quanto accaduto la sera del primo febbraio 2008: «Perché i testimoni non sono interve­nuti per difendere Damiano?» Diego Olgiati, avvocato della famiglia Tamagni, ha provato a dare una risposta. Perché il tutto si è veri­ficato velocemente. Ma ci sono altri motivi, più profondi e preoccupanti. Olgiati ha letto alcuni passaggi delle testimonianze: «C’è chi si è girato dall’altra parte, per paura di esse­re picchiato a sua volta». Si trattava di una ra­gazza. «Anche chi ha avvertito il tremendo ru­more del calcio al capo – riprende – si è vol­tato, impressionato». Un terzo testimone ha invece girato la faccia poiché aveva paura di essere visto mentre osservava quanto succe­deva: «Si tratta di gente bloccata dalla pau­ra ». Luca Marcellini, legale di Jurkic, ha tut­tavia precisato che molti non hanno visto, per­ché c’era tensione a causa della discussione in corso tra gruppi di giovani.
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Diego Olgiati: «È morto un innocente. Siamo al limite dell’assassinio»
«I terribili atti commessi dai tre im­putati si situano al limite tra l’omici­dio e l’assassinio. Il modus operandi utilizzato esula infatti dalla classifica­zione utilizzata storicamente per l’o­micidio, che viene motivato con la ge­losia, la paura o la sete di vendetta. In questo caso non c’è alcun rapporto preesistente tra la vittima e gli impu-t­ati, che soddisfano solo la propensio­ne alla violenza». Sono parole pesan­ti quelle rivolte ieri mattina soprattut­to a Marko Tomic e a Ivica Grgic dal­l’avvocato Diego Olgiati. Il legale del­la famiglia Tamagni ha dunque chie­sto alla Corte di prendere in conside­razione anche l’eventualità del dolo diretto. Andando oltre le richieste del­la procuratrice pubblica Rosa Item. Una macchina da guerra «È gravissima anche la colpa di Ivan Jurkic, colui che ha dato inizio alla tra­gica vicenda e che ha continuato a in­fierire quasi fino all’ultimo. Jurkic si salva dall’accusa di omicidio solo per la ponderatezza della procuratrice pubblica, alla quale la parte civile ren­de omaggio, poiché non si vuole un processo di piazza, ma un giudizio equo». Non ha usato mezzi termini l’avvocato Diego Olgiati, che, duran­te tutto il suo esposto, ha rimarcato la totale gratuità del tragico evento. «Una macchina da guerra perfettamente oliata e infallibile», ha sottolineato ri­ferendosi al trio. «I tre imputati sono coscienti di avere ucciso un innocen­te. Sciocca constatare che non c’era al­cun movente, alcun collegamento emozionale tra gli imputati e Damia­no ». Un modus operandi che lascia presagire un’azione concordata e sin­cronizzata. «I tre sono allenati, – dice Olgiati – organizzati, esprimono una rabbia e una ferocia intrinseca. E du­rante l’inchiesta non hanno mai dimo­strato pentimento. Non hanno mai chiesto perdono. Hanno solo chiesto giustizia». Olgiati ha poi messo l’ac­cento sulla gravità degli atti commes­si e, proprio per questo, coperti duran­te tutta l’inchiesta: «Difficili da analiz­zare, ma non da scovare». La perizia Fiori Diego Olgiati si è soffermato anche sulla perizia della difesa, elaborata dal dottor Angelo Fiori. «La procuratrice non l’ha nemmeno commentata», ha detto. «Ma bisogna innanzitutto sot­tolineare che il mandato stesso della perizia è sbagliato. Non bisogna chie­dere di creare dubbi fini a sé stessi. Ogni rapporto peritale deve giunge­re a delle conclusioni, facendo anche proposte alternative. Fiori non può fa­re un elenco di articoli con casi che parlano di lacerazioni spontanee del­l’arteria vertebrale e così via, mentre poi spiega che non sono correlati al­la morte di Damiano. È una questio­ne di metodo». Le richieste di risarcimento Settantacinquemila franchi per il papà di Damiano, altrettanti per la mamma e 25mila per la sorella. È la richiesta di risarcimento per torto morale, pronunciata dall’avvocato di parte civile al termine del suo inter­vento. «E questo – precisa – perché si tratta di un episodio di una gravità senza precedenti. È stato distrutto ir­rimediabilmente un rapporto familia­re. Bisogna anche tenere conto della sofferenza dei familiari durante la fa­se istruttoria, i quali si sono persino dovuti confrontare con denigrazioni, voci messe falsamente in circolazio­ne, su una presunta correlazione tra Damiano e il mondo della droga. Af­fermazioni puntualmente smentite in aula dal presidente». La somma finirà nelle casse della Fondazione Damia­no Tamagni, creata proprio dopo la morte del giovane gordolese per combattere il dilagarsi della violenza giovanile. Olgiati ha inoltre chiesto al­tri 70mila franchi di risarcimento per le spese legali, sottolineando che la perizia del professor Ennio Pedri­nis, perito dei Tamagni, è stata effet­tuata gratuitamente «per poter esse­re libero da condizionamenti». Infine, sono stati richiesti 18mila franchi per le spese mediche e per il funerale di Damiano.
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Luca Marcellini: «Ivan non deve essere incolpato di aggressione ma di rissa»
Limitare la condanna all’ipotesi di rissa, commessa per dolo eventuale. È la prima richiesta dell’avvocato Lu­ca Marcellini, difensore di Ivan Jurkic, al termine di un pacato esposto. «Su­bordinatamente chiedo l’aggressione per dolo eventuale», ha detto. «In ogni caso ritengo adeguata una pena de­tentiva non superiore al carcere pre­ventivo sofferto». Marcellini è andato oltre: «Se la corte dovesse accettare l’i­potesi contenuta nell’atto d’accusa, non ritengo giustificata una condan­na superiore ai 18 mesi di reclusione. Sempre sospesa parzialmente con la condizionale, anche nell’ipotesi di una pena superiore ai due anni». E pu­re in questa eventualità, la pena da scontare in carcere non dovrebbe su­perare il tempo già passato in prigione. Colpevole, ma... Tre i punti sui quali Marcellini ha vo­luto fare chiarezza, prima di pronun­ciare la sua proposta di pena ridotta. «Innanzitutto bisogna chiarire i fatti addebitati a Jurkic. Si può suddivide­re in tre fasi il drammatico episodio di Locarno. La prima, quando Damiano si trovava ancora in piedi, la seconda, con i colpi sferrati a terra e la terza, li­mitata ai calci inferti», ha spiegato. Se­condo l’accusa, sulla base delle testi­monianze raccolte, Ivan avrebbe par­tecipato anche alla seconda fase. Mentre per Marcellini, Jurkic è inter­venuto solo nei primi momenti. «Non è facile raccontare ciò che si è visto du­rante un’aggressione», ha detto sotto­lineando che le testimonianze sono da valutare con le giuste misure. «La tren­tina di testimonianze raccolte parla­no genericamente dei tre imputati, che avrebbero colpito Damiano quan­do si trovava a terra. Ma non ce n’è nemmeno una che indica un gesto preciso di Jurkic, oltre ai tre spintoni iniziali. Anche Tomic e Grgic dicono che Ivan non ha partecipato alla se­conda fase del pestaggio». Nessuna reticenza Il secondo punto esplorato da Marcel­lini verte invece sull’interpretazione dell’atteggiamento avuto da Jurkic durante il processo. «Ivan viene pre­sentato come reticente, partecipe di una sorta di linea difensiva concorda­ta con gli altri due imputati. Bisogna invece realizzare che alcune afferma­zioni rilasciate subito dopo l’uccisio­ne di Damiano non potevano rappre­sentare una strategia. Molti elementi sono diventati importanti solo dopo le risultanze dell’esame autoptico. L’importanza del pugno sferrato o me­no da Grgic è infatti emersa solo in un secondo tempo». L’avvocato difensore ha così fornito anche una descrizione della persona­lità del suo assistito: «Un bambinone, un ragazzone tranquillo», ha spiega­to. «Non è uno che fa il “mestiere del­la rissa”. Non si è mai vantato di ave­re picchiato. Anzi. Mai si è sentito di­re che avesse picchiato». Accuse da rivedere «Se la motivazione data da Jurkic per giustificare il primo spintone inferto a Damiano, peraltro non in maniera frontale, è tutto sommato comprensi­bile, le altre due spinte assumono una rilevanza giuridica». Non si nasconde, l’avvocato Marcellini. «Ivan doveva sa­pere, e quindi accettare, che la secon­da e la terza spinta, sferrate in quel contesto, come minimo avrebbero scatenato una rissa», ha ammesso. «Una rissa, dunque, per dolo eventua­le. Ma nulla di più». Il terzo punto scandagliato da Marcellini, ovvia­mente, riguarda la commisurazione della pena. «L’aggressione, in diritto penale, comprende l’eventualità che la vittima subisca lesioni gravi o, ad­dirittura, muoia». Il decesso di Damia­no, secondo la dottrina, non può dunque essere considerato un aggra­vante nel quantificare la pena che sarà inflitta a Ivan Jurkic. Marcellini, nel suo incipit, aveva inoltre messo in guardia la corte dal «desiderio collettivo di una “pena esemplare”». «Il rischio è che, per far fronte al disagio, si accresca au­tomaticamente la colpa del responsa­bile. Solo per darci una spiegazione più accettabile».

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GLI ULTIMI DUE GIORNI Verdetto attesissimo
Martedì la decisione
Il processo Tamagni si è già la­sciato alle spalle cinque giorni. Do­po la pausa di sabato e domenica si torna in aula lunedì mattina 26 gennaio alle 9.30. A prendere la pa­rola saranno gli avvocati dei due ra­gazzi accusati di omicidio intenzio­nale che avranno l’occasione di esporre alla Corte, presieduta da Mauro Ermani, le loro arringhe. Ya­sar Ravi difenderà Marko Tomic per il quale la procuratrice pubblica Ro­sa Item ha proposto dieci anni e mezzo di prigione. Francesca Pe­rucchi- Baggi farà altrettanto con Ivica Grgic che rischia 10 anni di carcere. Martedì 27, salvo imprevi­sti (la lunghezza delle arringhe di Ravi e di Perrucchi-Baggi resta una variabile importante), la camera di consiglio, composta dai giudici e dalla giuria, si riunirà. In serata, pro­babilmente, verrà emanata l’attesa sentenza. Verrà processato a parte, invece, il quarto imputato, un mi­norenne ticinese che avrebbe avu­to un ruolo nel pestaggio di Damia­no. Proprio perché al momento dei fatti non aveva ancora raggiunto i 18 anni, il ragazzo, difeso dall’avvo­cato Ignazio Maria Clemente, verrà giudicato in altra sede.
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PROCESSO TAMAGNI
Non siamo fatti per distruggere
di CLAUDIO CHIAPPARINO
(Direttore Dicastero Giovani ed Eventi della Città di Lugano)
Il male è terribile. Pochi lo neghe­rebbero. Almeno, lo spero. Ma anco­ra più terribile è la sconcertante as­surdità con cui si fa strada. Vedere consumarsi un processo con tutte le comprensibili tensioni uma­ne riapre allo stesso tempo grandi fe­rite per chi ha subito, grandi timori per chi guarda e spera che ciò non riaccada mai più, grandi grida di giu­stizia.
Viene un desiderio infinito di ricu­cire tutto, di tornare indietro in quella terribile sera e gridare «non fatelo, rovi­nerete tante vite, incluse le vostre». Per che cosa? Ma per che cosa? È assur­do! Eppure accade. È accaduto anche al­le nostre latitudini. Ho incontrato e incontro migliaia di gio­vani in tante situazioni diverse, e mol­te persone mi chiedono se la violenza è aumentata, se il modo di conoscere e di vivere dei giovani è cambiato. Certa­mente c’è un’emergenza educativa e lo avvertono in molti. Ma di fronte all’evi­denza di questi fatti è difficile acconten­tarsi di pur utili e interessanti analisi. Perché l’emergenza è proprio quella che ci siano, oltre alle giuste misure di pre­venzione e di protezione, sempre più persone capaci di rapporti autentici con gli altri e soprattutto con i giovani. Per questo ammiro tantissimo i genito­ri e i parenti di Damiano e li ringrazio per la limpida testimonianza di dignità umana. Le sfide sono veramente grandi e l’im­pegno richiesto non è da meno. Vedo anche però che tanti adulti mollano, perché ritengono che i giovani sono co­sì diversi da loro che non sanno più co­sa fare per comunicare. Invece bisogna guardare a quello che ci unisce, non ab­biamo forse gli stessi desideri, gli stessi sogni? A volte sembra una lotta impari, soprattutto quando ti accorgi che qual­cosa o qualcuno rema contro. Mi è ca­pitato, ad esempio, di sentire perfino il lamento di genitori che non capivano perché avevamo sequestrato il coltelli­no al figlio, prima di entrare ad una fe­sta, in quanto, secondo loro, aveva pur diritto a difendersi. Mi capita anche di vedere giovani alla deriva e che avendo l’opportunità di di­mostrare la loro validità in un lavoro tro­vano un motivo per ricominciare e si mettono responsabilmente ad aiutare anche gli altri. È quanto auguro anche ai tre giovani processati, che durante la prigione e do­po la giusta pena possano capire cosa si­gnifica costruire, perché noi non siamo fatti per la distruzione.

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