Dieci anni a Tomic e Grgic
Riconosciuto a carico dei due il reato di omicidio intenzionale. A Jurkic, invece, 2 anni e 6 mesi per aggressione
Dieci anni a Ivica Grgic e 10 anni a Marko Tomic, entrambi riconosciuti colpevoli di omicidio intenzionale per dolo eventuale. E 2 anni e 6 mesi, per il reato di aggressione, a Ivan Jurkic, che dovrà però espiare complessivamente soltanto 14 mesi ( 12 quelli già sofferti). Il dispositivo della sentenza letto ieri verso le 23 dal giudice Mauro Ermani, presidente della Corte di Assise criminali di Locarno, ha quindi ricalcato nella sostanza le aspettative dell’accusa, pur non infliggendo a Tomic quel mezz’anno in più rispetto all’amico che era stato richiesto dalla procuratrice pubblica Rosa Item. La colpa da ascrivere ai due, ha detto Ermani, è in definitiva la stessa, e nella commisurazione della pena i precedenti e la sincerità dimostrata da Grgic sono equivalsi al « comportamento processuale senza assunzione di responsabilità » tenuto da Tomic. I due ragazzi, ha accertato la Corte, hanno colpito Damiano alla testa, quando questi era a terra, con almeno un calcio ognuno. Lo hanno fatto « in modo vigliacco e senza scrupoli, per soddisfare la voglia di far andare le mani » . Tomic e Grgic hanno dimostrato « disprezzo per la vita umana ed egoismo nell’appagare la loro voglia di violenza » . Quanto al dolo, « si tratta di un tipico caso di azione per dolo eventuale » , perché « basta che l’autore sia cosciente di poter cagionare la morte ma agisca accettando il rischio che ciò accada » . E non è vero, ha aggiunto Ermani a scanso di equivoci, che la giurisprudenza non presenti altri casi di condanne per omicidio intenzionale per dolo eventuale senza che vi sia stato l’ausilio delle armi, così come asserito dall’avvocato Yasar Ravi. I colpi inferti a Damiano alla testa, ha proseguito il giudice, « sono stati colpi tali da rompere l’arteria della vittima » , causandone così la morte. In questo senso è stata considerata « concludente e convincente » la perizia giudiziaria del dottor Antonio Osculati, e ugualmente « convincenti » sono state le indicazioni del perito di parte civile, Ennio Pedrinis. Ermani – al di là dalla commisurazione della pena – non è stato tenero neppure con Jurkic, che « non è intervenuto, spintonandolo, per proteggere Damiano, ma lo ha fatto dopo che gli era stata fatta notare la presenza del giovane noto per i suoi precedenti di rissa » ( il “ Carlos” delle nostre cronache). Jurkic « non si è mai dissociato, prima dell’arresto, dagli altri due, e non si è mai dimostrato pentito » . Dopo l’arresto, inoltre, « non ha esitato a gettare fango su Damiano » . La sua colpa « è grave per il reato che ha commesso, a prescindere dall’esito drammatico dell’aggressione » . Nella sala riservata al pubblico più di 100 persone, in maggioranza giovani, hanno seguito in silenzio la lettura della sentenza. Volti concentrati e attenti, nonostante l’ora tarda. Dagli altoparlanti la voce del giudice Ermani giungeva chiara; sul video della telecamera fissa si poteva osservare la corte. All’uscita pochi commenti, per sottolineare la severità delle pene inflitte agli accusati. Poi tutti sono sfilati di fronte agli agenti dell’imponente dispositivo di sicurezza allestito ieri sera in via Luini per tornare a casa.
***
I protagonisti del processo sotto i riflettori per sette lunghi giorni
Una lunga settimana per i protagonisti del processo che si sono ritrovati al centro dell’attenzione dei media; a pochi metri da imputati, corte, avvocati e parenti, per otto ore al giorno i giornalisti hanno osservato ogni gesto e ascoltato ogni parola per captare tutte le sfumature. Ecco alcune riflessioni.
I genitori di Damiano
Il processo è stato un’esperienza provante per tutte le parti in causa ( organi di stampa compresi), ma addirittura straziante per i genitori di Damiano. Più di una volta in sala s’è riflettuto sull’opportunità, per la mamma, di rimanere al suo posto, accanto all’avvocato di parte civile, mentre l’istruttoria dibattimentale andava a sezionare i singoli fotogrammi del pestaggio fatale. Nulla è più doloroso per una madre che rivivere più e più volte la morte violenta di un figlio. Se è questo il percorso che i Tamagni hanno scelto per affrontare il loro dramma, è un percorso che merita il massimo rispetto.
La compostezza dei parenti dei tre imputati
La settimana di dibattimento è stata un durissimo banco di prova anche per i parenti dei tre giovani imputati, due dei quali finiti alla sbarra per rispondere di un reato pesante come l’omicidio intenzionale. Fianco a fianco si ritrovavano famiglie i cui rapporti – è un fatto risaputo – si sono inaspriti proprio a causa del dramma di carnevale. Eppure da questo contesto di rabbia, disperazione e tristezza è emersa soprattutto una grande compostezza, una capacità di elaborare il dolore proprio e altrui senza eccessi, ma anzi contraddistinta da un grande rispetto.
L’atteggiamento del giudice
Qualche critica s’è levata in relazione all’atteggiamento avuto durante il processo dal presidente della Corte. Non di rado il giudice Mauro Ermani ha sottolineato con veemenza le mancate risposte degli imputati riguardo a contingenze importanti, se non cruciali; e spesso si è arrabbiato per i “ non ricordo” che costellavano le ricostruzioni dei fatti. Tuttavia, pur se a volte uscendo dagli schemi, Ermani ha dimostrato il suo spessore morale riuscendo a tenere saldamente in mano un dibattimento sempre e costantemente in preda a forti venti contrastanti.
Gli amici e la Fondazione
Una presenza costante, sobria e partecipe, è stata quella degli amici di Damiano Tamagni, che qualche mese fa hanno dato vita alla Fondazione anti- violenza a lui intitolata. Non era facile, nel contesto di un processo a tratti quasi insostenibile, dare un segno di equilibrio, e di vicinanza ai più stretti familiari della vittima. Gli amici di Damiano ci sono riusciti.
Valida la soluzione per far spazio al pubblico
Il Tribunale penale cantonale ha sottovalutato l’interesse del pubblico per il processo. Così, alle prime battute, ci si è accorti che nell’aula del Pretorio di Locarno non c’era spazio sufficiente per tutti. Il problema è stato risolto in tempi brevi ( nel giro di un paio di giorni); è stato allestito un videocollegamento con una sala nel vicino Palazzo dell’amministrazione cantonale. Una settantina i posti. Molti hanno potuto seguire istruttoria, requisitorie e arringhe, facendosi così un’idea chiara di un processo difficile e di grande intensità emotiva.
Accusa all’accusa... Ma poi si fa uguale
Durante le loro arringhe gli avvocati difensori hanno lodato l’inchiesta precisa e puntigliosa condotta dalla procuratrice pubblica Rosa Item. Salvo poi criticare il suo metodo di lavoro: estrapolare dalle decine di testimonianze raccolte solo gli argomenti utili per costruire il castello accusatorio. « Non si fa » , hanno commentato. Ma più avanti, per rinforzare le loro tesi difensive e per evidenziare dubbi e incongruenze, non hanno esitato ad usare lo stesso identico sistema, proponendo in lunghe carrellate alcuni stralci tratti dalle dichiarazioni dei testi.
Sui motivi della violenza nessuna risposta
Uno degli aspetti più scioccanti è stato il silenzio dei tre imputati di fronte a una delle domande chiave del processo: perché quella violenza? Il giudice Mauro Ermani ha insistito più volte. « Ci dev’essere una ragione. Cosa vi ha spinto? Possibile che durante l’anno trascorso in cella non abbiate riflettuto su questo punto? ». Frastornante la scena muta dei tre imputati. « Deduco che non ci sia stato un motivo – ha concluso Ermani –. Se sono stati gesti gratuiti c’è di che allarmarsi. Chi mi dice che un domani non possiate ripeterli? ».
***
L’editoriale
Caso Tamagni, reazioni senza freni e giustizia
di Davide Martinoni e Serse Forni
Salvo possibili ricorsi per Cassazione da parte della difesa, la sentenza di colpevolezza emessa ieri sera dalla Corte delle Assise criminali di Locarno presieduta dal giudice Mauro Ermani ha messo la parola fine ad uno dei casi giudiziari più sentiti degli ultimi anni in Ticino. Il processo pubblico – che realmente pubblico nei primi due giorni non è stato a causa di prevedibili problemi di spazio nell’aula penale del Pretorio – è stato l’appendice penale di una vicenda che ha scosso il cantone per vari motivi. Il primo, il più immediato ed evidente, è stato la morte violenta di un ragazzo innocente, che nulla aveva fatto quella sera del 1o febbraio 2008 se non cercare di divertirsi. Un secondo tema, che è andato ad aggiungersi al primo ed è emerso con forza durante il dibattimento, è stato l’assurdità dell’aggressione, la “ gratuità del gesto”, come l’ha definita l’avvocato della famiglia Tamagni: un pestaggio iniziato senza alcun motivo e condotto con rapida brutalità fino all’esito finale. Il terzo motivo di tanta attenzione è quello razziale. Un motivo di stampo tipicamente destrorso, cavalcato a fini ideologici e politici da quegli “ estremisti da grottino” – alcuni di essi purtroppo muniti di giornale – abilissimi a sfruttare una paura del diverso sempre più diffusa nella popolazione. Paura molto presente anche fra i più giovani, come dimostra il fatto che, fin dai primissimi giorni, in quei loro territori di espressione che sono i “ blog” è stato riversato il peggio che una comunità multietnica come la nostra potesse partorire: odio razziale, sete di vendetta e altre spaventose dimostrazioni di intolleranza che rimandano a ben più cupi periodi storici. Per molti di questi “ dimostranti” il caso era chiuso già una settimana dopo i fatti: i tre sono stati processati sommariamente e condannati sul web a pene feroci che il Codice penale svizzero neppure prevede. Poi i gestori di portali come Ticinonews e Ticinonline si sono resi conto che i limiti erano stati superati e hanno oscurato i “ blog”. Anche nei giorni del processo gli internauti si sono fatti sentire, utilizzando nuove modalità di comunicazione: Facebook e un sito d’oltre confine. Obiettivo: raccogliere adesioni per una richiesta di pena severissima. Il tutto a ruota libera e senza filtri. L’avvocato difensore Luca Marcellini, nella sua arringa per Ivan Jurkic, ha puntato il dito contro la pressione dell’opinione pubblica, che non si era mai manifestata in modo così dirompente. Ha pure dato una sua spiegazione: si vuole a tutti costi accrescere la colpa per distanziarsi dagli autori dei fatti. Loro sono i “ mostri”, capaci di ogni efferatezza, lontani da noi per età, modo di pensare ma soprattutto etnia. Così tutto sembra più chiaro, comprensibile e accettabile. Anche se non corrisponde alla realtà dei fatti.
Il rischio è che, quando può viaggiare a briglia sciolta, l’opinione pubblica tolga serenità a chi deve amministrare la giustizia. È giusto, democratico e legittimo che ognuno possa esprimere la propria opinione. E con le nuove tecnologie l’esercizio è ancora più facile: un gioco da bambini. Ma ogni gioco deve avere le sue regole, affinché sia corretto e onesto. Se da una parte bisogna imparare a gestire queste nuove situazioni, dall’altra occorre richiamare alle proprie responsabilità chi ospita gli scritti di tutti (spesso anche di chi si nasconde dietro l’anonimato) senza porre alcun limite. Quando il limite viene superato, o a monte non viene neppure imposto, allora la reazione popolare è inevitabilmente una deriva morale che si traduce negli insulti, nelle ingiurie e nelle minacce. E il diritto penale viene ridotto ad optional. È significativo che per mettere un freno al fiorire di iniziative di dubbia origine, ma di indubbio scopo, abbia dovuto intervenire la stessa famiglia Tamagni, chiedendo pubblicamente di non strumentalizzare la morte di Damiano. Ed è illuminante in questo senso il lavoro di sensibilizzazione condotto contro la violenza giovanile, ma anche contro l’intolleranza, dalla neonata Fondazione intitolata a Damiano. È un lavoro duro, di questi tempi, ma che trae beneficio dalle prime, autorevoli risultanze delle analisi svolte dal Gruppo “giovani, violenza educazione”, istituito all’indomani dell’uccisione di Damiano e coordinato dal procuratore Antonio Perugini. “Svizzero o straniero non fa differenza – è statisticamente l’identikit tracciato del giovane violento –. Maschio, di un’età mediamente compresa tra i 13 e i 20 anni, con un alto rischio di recidiva spinto dal sentimento di onnipotenza, disprezzo per la vittima e accanimento anche dopo averla già sopraffatta, scarsa coscienza delle conseguenze dei propri gesti, pronunciato narcisismo che si esprime con l’esibizione delle proprie bravate (filmati, foto con cellulari, racconti agli amici)”. Per diversi tratti è la descrizione esatta degli imputati di Locarno. La cui origine straniera non può e non deve essere considerata un’aggravante.
Nessun commento:
Posta un commento