28 gennaio 2009 - La Regione Ticino

Dieci anni a Tomic e Grgic
Riconosciuto a carico dei due il reato di omicidio intenzionale. A Jurkic, invece, 2 anni e 6 mesi per aggressione
Dieci anni a Ivica Grgic e 10 anni a Marko Tomic, entrambi riconosciuti colpevoli di omicidio intenzionale per dolo eventuale. E 2 anni e 6 mesi, per il reato di aggressione, a Ivan Jurkic, che dovrà però espiare complessivamente soltanto 14 mesi ( 12 quelli già sofferti). Il dispositivo della sentenza letto ieri verso le 23 dal giudice Mauro Ermani, presidente della Corte di Assise crimi­nali di Locarno, ha quindi ricalcato nella sostanza le aspettative dell’accu­sa, pur non infliggendo a Tomic quel mezz’anno in più rispetto all’amico che era stato richiesto dalla procuratrice pubblica Rosa Item. La colpa da ascri­vere ai due, ha detto Ermani, è in defi­nitiva la stessa, e nella commisurazio­ne della pena i precedenti e la sincerità dimostrata da Grgic sono equivalsi al « comportamento processuale senza as­sunzione di responsabilità » tenuto da Tomic. I due ragazzi, ha accertato la Corte, hanno colpito Damiano alla te­sta, quando questi era a terra, con al­meno un calcio ognuno. Lo hanno fatto « in modo vigliacco e senza scrupoli, per soddisfare la voglia di far andare le mani » . Tomic e Grgic hanno dimostrato « di­sprezzo per la vita umana ed egoismo nell’appagare la loro voglia di violen­za » . Quanto al dolo, « si tratta di un tipi­co caso di azione per dolo eventuale » , perché « basta che l’autore sia cosciente di poter cagionare la morte ma agisca accettando il rischio che ciò accada » . E non è vero, ha aggiunto Ermani a scan­so di equivoci, che la giurisprudenza non presenti altri casi di condanne per omicidio intenzionale per dolo even­tuale senza che vi sia stato l’ausilio del­le armi, così come asserito dall’avvoca­to Yasar Ravi. I colpi inferti a Damiano alla testa, ha proseguito il giudice, « sono stati col­pi tali da rompere l’arteria della vitti­ma » , causandone così la morte. In que­sto senso è stata considerata « conclu­dente e convincente » la perizia giudizia­ria del dottor Antonio Osculati, e ugualmente « convincenti » sono state le indicazioni del perito di parte civile, Ennio Pedrinis. Ermani – al di là dalla commisurazio­ne della pena – non è stato tenero nep­pure con Jurkic, che « non è intervenuto, spintonandolo, per proteggere Damiano, ma lo ha fatto dopo che gli era stata fat­ta notare la presenza del giovane noto per i suoi precedenti di rissa » ( il “ Car­los” delle nostre cronache). Jurkic « non si è mai dissociato, prima dell’arresto, dagli altri due, e non si è mai dimostrato pentito » . Dopo l’arresto, inoltre, « non ha esitato a gettare fango su Damiano » . La sua colpa « è grave per il reato che ha commesso, a prescindere dall’esito drammatico dell’aggressione » . Nella sala riservata al pubblico più di 100 persone, in maggioranza giovani, han­no seguito in silenzio la lettura della sen­tenza. Volti concentrati e attenti, nono­stante l’ora tarda. Dagli altoparlanti la voce del giudice Ermani giungeva chiara; sul video della telecamera fissa si poteva osservare la corte. All’uscita pochi com­menti, per sottolineare la severità delle pene inflitte agli accusati. Poi tutti sono sfilati di fronte agli agenti dell’imponente dispositivo di sicurezza allestito ieri sera in via Luini per tornare a casa.
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I protagonisti del processo sotto i riflettori per sette lunghi giorni

Una lunga settimana per i prota­gonisti del processo che si sono ri­trovati al centro dell’attenzione dei media; a pochi metri da impu­tati, corte, avvocati e parenti, per otto ore al giorno i giornalisti hanno osservato ogni gesto e ascoltato ogni parola per captare tutte le sfumature. Ecco alcune ri­flessioni.
I genitori di Damiano
Il processo è stato un’esperienza provante per tutte le parti in causa ( organi di stampa compresi), ma ad­dirittura straziante per i genitori di Damiano. Più di una volta in sala s’è riflettuto sull’opportunità, per la mamma, di rimanere al suo po­sto, accanto all’avvocato di parte ci­vile, mentre l’istruttoria dibatti­mentale andava a sezionare i singo­li fotogrammi del pestaggio fatale. Nulla è più doloroso per una madre che rivivere più e più volte la morte violenta di un figlio. Se è questo il percorso che i Tamagni hanno scel­to per affrontare il loro dramma, è un percorso che merita il massimo rispetto.
La compostezza dei parenti dei tre imputati
La settimana di dibattimento è stata un durissimo banco di prova anche per i parenti dei tre giovani imputati, due dei quali finiti alla sbarra per rispondere di un reato pesante come l’omicidio intenziona­le. Fianco a fianco si ritrovavano fa­miglie i cui rapporti – è un fatto ri­saputo – si sono inaspriti proprio a causa del dramma di carnevale. Ep­pure da questo contesto di rabbia, disperazione e tristezza è emersa so­prattutto una grande compostezza, una capacità di elaborare il dolore proprio e altrui senza eccessi, ma anzi contraddistinta da un grande rispetto.
L’atteggiamento del giudice
Qualche critica s’è levata in rela­zione all’atteggiamento avuto du­rante il processo dal presidente del­la Corte. Non di rado il giudice Mauro Ermani ha sottolineato con veemenza le mancate risposte degli imputati riguardo a contingenze importanti, se non cruciali; e spes­so si è arrabbiato per i “ non ricor­do” che costellavano le ricostruzio­ni dei fatti. Tuttavia, pur se a volte uscendo dagli schemi, Ermani ha dimostrato il suo spessore morale riuscendo a tenere saldamente in mano un dibattimento sempre e co­stantemente in preda a forti venti contrastanti.
Gli amici e la Fondazione
Una presenza costante, sobria e partecipe, è stata quella degli amici di Damiano Tamagni, che qualche mese fa hanno dato vita alla Fonda­zione anti- violenza a lui intitolata. Non era facile, nel contesto di un pro­cesso a tratti quasi insostenibile, dare un segno di equilibrio, e di vici­nanza ai più stretti familiari della vittima. Gli amici di Damiano ci sono riusciti.
Valida la soluzione per far spazio al pubblico
Il Tribunale penale cantonale ha sottovalutato l’interesse del pub­blico per il processo. Così, alle pri­me battute, ci si è accorti che nel­l’aula del Pretorio di Locarno non c’era spazio sufficiente per tutti. Il problema è stato risolto in tempi brevi ( nel giro di un paio di gior­ni); è stato allestito un videocolle­gamento con una sala nel vicino Palazzo dell’amministrazione can­tonale. Una settantina i posti. Mol­ti hanno potuto seguire istruttoria, requisitorie e arringhe, facendosi così un’idea chiara di un processo difficile e di grande intensità emo­tiva.
Accusa all’accusa... Ma poi si fa uguale
Durante le loro arringhe gli av­vocati difensori hanno lodato l’in­chiesta precisa e puntigliosa con­dotta dalla procuratrice pubblica Rosa Item. Salvo poi criticare il suo metodo di lavoro: estrapolare dalle decine di testimonianze rac­colte solo gli argomenti utili per costruire il castello accusatorio. « Non si fa » , hanno commentato. Ma più avanti, per rinforzare le loro tesi difensive e per evidenzia­re dubbi e incongruenze, non han­no esitato ad usare lo stesso identi­co sistema, proponendo in lunghe carrellate alcuni stralci tratti dalle dichiarazioni dei testi.
Sui motivi della violenza nessuna risposta
Uno degli aspetti più scioccanti è stato il silenzio dei tre imputati di fronte a una delle domande chiave del processo: perché quella violenza? Il giudice Mauro Ermani ha insistito più volte. « Ci dev’essere una ragione. Cosa vi ha spinto? Possibile che du­rante l’anno trascorso in cella non ab­biate riflettuto su questo punto? ». Fra­stornante la scena muta dei tre im­putati. « Deduco che non ci sia stato un motivo – ha concluso Ermani –. Se sono stati gesti gratuiti c’è di che al­larmarsi. Chi mi dice che un domani non possiate ripeterli? ».
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L’editoriale
Caso Tamagni, reazioni senza freni e giustizia
di Davide Martinoni e Serse Forni
Salvo possibili ricorsi per Cassazione da parte della difesa, la sentenza di colpe­volezza emessa ieri sera dalla Corte delle Assise cri­minali di Locarno presiedu­ta dal giudice Mauro Erma­ni ha messo la parola fine ad uno dei casi giudiziari più sentiti degli ultimi anni in Ticino. Il processo pub­blico – che realmente pub­blico nei primi due giorni non è stato a causa di preve­dibili problemi di spazio nell’aula penale del Preto­rio – è stato l’appendice pe­nale di una vicenda che ha scosso il cantone per vari motivi. Il primo, il più immediato ed evidente, è stato la morte violenta di un ragazzo inno­cente, che nulla aveva fatto quella sera del 1o febbraio 2008 se non cercare di diver­tirsi. Un secondo tema, che è andato ad aggiungersi al primo ed è emerso con forza durante il dibattimento, è stato l’assurdità dell’ag­gressione, la “ gratuità del gesto”, come l’ha definita l’avvocato della famiglia Tamagni: un pestaggio ini­ziato senza alcun motivo e condotto con rapida bruta­lità fino all’esito finale. Il terzo motivo di tanta attenzione è quello razziale. Un motivo di stampo tipica­mente destrorso, cavalcato a fini ideologici e politici da quegli “ estremisti da grotti­no” – alcuni di essi purtrop­po muniti di giornale – abi­lissimi a sfruttare una pau­ra del diverso sempre più diffusa nella popolazione. Paura molto presente anche fra i più giovani, come di­mostra il fatto che, fin dai primissimi giorni, in quei loro territori di espressione che sono i “ blog” è stato ri­versato il peggio che una co­munità multietnica come la nostra potesse partorire: odio razziale, sete di vendet­ta e altre spaventose dimo­strazioni di intolleranza che rimandano a ben più cupi periodi storici. Per molti di questi “ dimo­stranti” il caso era chiuso già una settimana dopo i fatti: i tre sono stati proces­sati sommariamente e con­dannati sul web a pene fero­ci che il Codice penale sviz­zero neppure prevede. Poi i gestori di portali come Tici­nonews e Ticinonline si sono resi conto che i limiti erano stati superati e hanno oscurato i “ blog”. Anche nei giorni del pro­cesso gli internauti si sono fatti sentire, utilizzando nuove modalità di comuni­cazione: Facebook e un sito d’oltre confine. Obiettivo: raccogliere adesioni per una richiesta di pena seve­rissima. Il tutto a ruota li­bera e senza filtri. L’avvocato difensore Luca Marcellini, nella sua arrin­ga per Ivan Jurkic, ha pun­tato il dito contro la pres­sione dell’opinione pubbli­ca, che non si era mai mani­festata in modo così dirom­pente. Ha pure dato una sua spiegazione: si vuole a tutti costi accrescere la colpa per distanziarsi dagli autori dei fatti. Loro sono i “ mo­stri”, capaci di ogni effera­tezza, lontani da noi per età, modo di pensare ma so­prattutto etnia. Così tutto sembra più chiaro, com­prensibile e accettabile. An­che se non corrisponde alla realtà dei fatti.
Il rischio è che, quando può viag­giare a briglia sciolta, l’opinione pubblica tolga serenità a chi deve amministrare la giustizia. È giusto, democratico e legittimo che ognuno possa esprimere la propria opinio­ne. E con le nuove tecnologie l’eser­cizio è ancora più facile: un gioco da bambini. Ma ogni gioco deve avere le sue regole, affinché sia cor­retto e onesto. Se da una parte biso­gna imparare a gestire queste nuove situazioni, dall’altra occorre ri­chiamare alle proprie responsabi­lità chi ospita gli scritti di tutti (spesso anche di chi si nasconde die­tro l’anonimato) senza porre alcun limite. Quando il limite viene superato, o a monte non viene neppure imposto, allora la reazione popolare è inevi­tabilmente una deriva morale che si traduce negli insulti, nelle ingiurie e nelle minacce. E il diritto penale viene ridotto ad optional. È significativo che per mettere un freno al fiorire di iniziative di dub­bia origine, ma di indubbio scopo, abbia dovuto intervenire la stessa famiglia Tamagni, chiedendo pub­blicamente di non strumentalizzare la morte di Damiano. Ed è illumi­nante in questo senso il lavoro di sensibilizzazione condotto contro la violenza giovanile, ma anche contro l’intolleranza, dalla neona­ta Fondazione intitolata a Damia­no. È un lavoro duro, di questi tem­pi, ma che trae beneficio dalle pri­me, autorevoli risultanze delle ana­lisi svolte dal Gruppo “giovani, vio­lenza educazione”, istituito all’in­domani dell’uccisione di Damiano e coordinato dal procuratore Antonio Perugini. “Svizzero o straniero non fa diffe­renza – è statisticamente l’identikit tracciato del giovane violento –. Maschio, di un’età mediamente compresa tra i 13 e i 20 anni, con un alto rischio di recidiva spinto dal sentimento di onnipotenza, disprez­zo per la vittima e accanimento an­che dopo averla già sopraffatta, scarsa coscienza delle conseguenze dei propri gesti, pronunciato narci­sismo che si esprime con l’esibizione delle proprie bravate (filmati, foto con cellulari, racconti agli amici)”. Per diversi tratti è la descrizione esatta degli imputati di Locarno. La cui origine straniera non può e non deve essere considerata un’ag­gravante.

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